Because if it’s not love
Then it’s the bomb, the bomb, the bomb
The bomb, the bomb, the bomb, the bomb
That will bring us together
(The Smiths, Ask me)
In una conferenza pronunciata nel 1965, Pro o contro la bomba atomica, Elsa Morante impiegava l’immagine dell’ordigno nucleare per simboleggiare l’«occulta tentazione di disintegrarsi» da parte di un’umanità sempre più alienata, corrotta dalla società di massa e succube degli «stregoni-scienziati»; e enfatizzava, al contrario, l’importanza degli scrittori, ai quali spetterebbe un ruolo di disinnesco e di risveglio delle coscienze, visto che compito dell’arte è quello di «impedire la disintegrazione della coscienza umana».
Quando Morante scriveva queste parole si era nel pieno della Guerra fredda, a pochi anni dalla crisi missilistica cubana che, nell’ottobre del 1962, portò Stati Uniti e Urss a un passo dallo scontro armato: il timore dello scoppio di un conflitto nucleare faceva allora parte dell’immaginario collettivo e l’ombra della Bomba accompagnava la crescita del consumismo americano e il boom economico dell’Europa occidentale. Non sorprende, allora, che quella paranoia atomica sia stata assorbita, veicolata e anche sfruttata dalla cultura pop, a partire da quella statunitense: arti visive, letteratura, musica e cinema si sono infatti nutriti di costanti riferimenti all’era nucleare, e l’interesse per tale tema non sembra ancora essersi esaurito (lo si ritrova, per esempio, nell’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Il passeggero, i cui protagonisti sono figli di un fisico che lavorò al Progetto Manhattan).
A raccontare tutto questo è Camilla Sernagiotto nel suo La trappola atomica: come la bomba ha contaminato la cultura pop (Ultra), un’interessante ricostruzione di come le armi atomiche, dalla loro tragica manifestazione nel 1945, siano state protagoniste della cultura popolare.
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