“Man pas encore”: IOSONOUNCANE e la lingua meticcia di IRA

CANZONI D’AUTORE

Go through what is comprehensible and you conclude
that only the incomprehensible gives any light
(Saul Bellow, Herzog)

1. Tra i musicisti italiani che negli ultimi anni hanno maggiormente fatto parlare di sé Jacopo Incani, noto col nome d’arte di IOSONOUNCANE, occupa certamente un posto d’onore. Con tre album all’attivo, in una decina d’anni l’autore sardo ha dato prova di una notevole evoluzione stilistica e, soprattutto, di un’apertura musicale che lo collocano in netta controtendenza rispetto alla scena nostrana. Il suo è il profilo di un artista disancorato da qualsiasi logica commerciale e guidato da una ostinata rivendicazione di libertà: non sarà un caso che, tra i tanti riferimenti da lui stesso citati per il suo ultimo album IRA (Trovarobato/Numero Uno, 2021) ci sia molta musica degli anni ’60 e ’70 (dal Kraut-rock a Robert Wyatt, dal Coltrane di Ascension alla psichedelia), ovvero il periodo in cui quasi tutte le manifestazioni della popular music si alimentavano di sperimentazione e contaminazione.

È proprio ad IRA che dedicheremo un approfondimento, soffermandoci sulla lingua utilizzata per i testi. Una delle particolarità di questo album-kolossal di quasi due ore, in cui i legami col cantautorato presenti nei due primi dischi di Incani si sono liquefatti, è certamente la scelta di non impiegare l’italiano a favore, invece, della mescolanza di altre lingue. Come evidenziato nel comunicato stampa che ha accompagnato l’uscita del disco, quella di IRA è «una lingua dell’errore, della distanza percorsa e ancora da percorrere, una lingua del fraintendimento, della mancata comunicazione […]. Non è quindi una neolingua, bensì una lingua momentanea, della necessità, fatta di errori e di un lessico occasionale, sradicato e confuso, che mischia inglese, arabo, francese, spagnolo, tedesco ed italiano».

Più precisamente, come sottolineato dallo stesso Incani, dell’italiano è in realtà utilizzata solo la sintassi, mentre il lessico attinge a inglese, francese e –in misura minore– spagnolo e arabo[1]. Sul modo di procedere nella stesura dei testi, l’autore così ha affermato:

Ho fantasticato fin da subito con l’idea di non usare la mia lingua, creando un lessico rubato, sradicato e occasionale. Ho messo insieme un glossario di un migliaio di parole e ho tradotto ciascuna nelle varie lingue, prendendo appunti sulla pronuncia. Poi, dopo aver scritto in italiano, ho sostituito le parole nelle varie lingue.

E prima di questo esercizio traduttivo c’è stato un lavoro con e sulla voce, che in questo album è impiegata come uno strumento tra gli altri[2]: è sempre l’autore a dichiarare che la lingua dei testi

È venuta istintivamente con la scrittura delle melodie, che già ai tempi di DIE creavo improvvisando con la voce, usata come uno strumento su traiettorie inafferrabili: sovente restano tali e quali anche nella versione finale. Seguendo questo metodo, utilizzo più spesso fonemi che parole di senso compiuto e questa volta mi sono ritrovato a rincorrere suoni che non mi erano familiari: in testa mi risuonava qualcosa tipo la mia voce in lontananza, mischiata in mezzo ad altre. Ho preservato queste prerogative e mi sono ritrovato così a utilizzare vocaboli di lingue forestiere, mescolate in maniera scorretta, che manifestano un senso di smarrimento, solitudine e disperazione. A quel punto sono andato in cerca di letture che mi potessero guidare o anche solo consolare, incappando in Finnegans Wake di Joyce e The Waste Land di T.S. Eliot.

Come si vede anche dai riferimenti letterari citati, la ricerca di Incani non difetta in ambizione: trovatosi di fronte a melodie che «non avevano la scansione dell’italiano», il musicista sardo non ha esitato a riversare questa sensazione di estraneità in brani in cui, in ogni verso, vengono accostati termini appartenenti a lingue diverse[3].

2. Dal punto di vista della sua struttura, IRA appartiene certamente alla categoria dei concept-album, ovvero quei dischi che non sono semplici raccolte di canzoni ma i cui brani sono accomunati da uno stesso tema o danno vita, nel loro insieme, ad uno sviluppo narrativo. Benché non si possa sostenere che IRA racconti una storia nel senso canonico del termine, è però vero che le 17 tracce del disco (hiver, ashes, foule, jabal, ojos, nuit, prison, horizon, piel, prière, niran, soldiers, fleuve, sangre, pétrole, hajar, cri) ruotano tutte intorno ad un medesimo nucleo tematico, ovvero quello della migrazione[4]. È di nuovo lo stesso Incani a confermare la circostanza:

IRA narra di una moltitudine in viaggio, di uomini e donne che attraversano terre enormi lontane dal luogo in cui sono nati

E ancora:

IRA è il disco corale di un uomo che rinuncia in parte alla propria voce per abbracciare quella di una moltitudine che attraversa terre e mari

In questo c’è un’evidente rivendicazione politica da parte dell’artista: in una fase storica fatta di individualismo esasperato, economizzazione di ogni aspetto della società e nazionalismi di ritorno, richiamarsi ad archetipi universali come quelli del viaggio, dell’esodo e dell’incontro significa ricollegarsi ad un immaginario millenario che accompagna da sempre l’esistenza degli uomini e la loro cultura, ma significa anche guardare in faccia il nostro presente. E oltre che dai testi questa tematica è chiaramente evocata anche dalla musica, a partire dalla componente africana, e più precisamente maghrebina, presente in molti brani dell’album[5].

Ritornando ai testi, già il primo brano, hiver, ci parla di un individuo “non ancora uomo”[6] (e, più avanti, “non ancora nato”), un “figlio affamato e abbandonato […] partito da solo”; e ad accompagnare questa partenza sembrerebbe esserci la voce di una madre che chiede “dove sei?” (una domanda che tornerà insistita anche nella decima traccia, prière), e che parla del suo “sangue nascosto nelle vene / dell’ultimo figlio abbandonato”. Insomma, già dall’inizio IRA introduce l’ascoltatore al filo conduttore che attraversa tutto il disco: lo ritroviamo infatti ribadito esplicitamente in altre tracce, nelle quali tornano i motivi di una madre lontana e di un figlio perduto, così come quelli dell’esilio forzato di un uomo senza terra e senza voce e del suo viaggio per mari e deserti verso una città lontana e fredda.
Ma come sottolineato dalle parole di Incani riportate più sopra, il protagonista di questa storia non è tanto un individuo con una precisa identità quanto piuttosto un simbolo che assume una valenza collettiva: è ciò che viene esplicitato in alcuni brani, come prison (“Noi tutti il mio stesso nome / Noi tutti le stesse mie ceneri / Una bocca per tutte queste facce / Noi tutti il mio stesso nome”), piel (“E lenta sta andando giù la barca sommersa / Attraverso il legno l’ultimo canto / Lungo la fredda fogna / La lunga preghiera della folla annegata”), prière (“I miei bambini / I miei bambini / I miei figli lontani / I miei bambini / Stanno aspettando”) o fleuve (“Verso la strada senza voce / Stanchi camminiamo ancora / Per la nostra città lontana”), nei quali la migrazione è declinata al plurale.

Un altro aspetto che emerge dai versi di IRA è una dimensione cristologica (per esempio in ashes si parla di un “figlio sacro”, mentre in prison e in piel di un “figlio impiccato”; in jabal, invece, si canta di “Tutte le voci per chiamarmi dio / Tutte le voci per chiamarmi figlio / Tutte le voci perdonate / Oggi risorte nel grido”), a cui si affianca una simbologia evangelica (cfr. questi versi di ashes: “Nuove ceneri disperse / Come può essere? Come può essere? / E vuote le tombe / Come può essere? Come può essere? Come può essere?”). A quest’ultima contribuisce anche la fitta presenza di animali (un gallo che canta, mosche che accompagnano il viaggio e che digiunano, una balena nutrita e cacciata, un cane picchiato e annegato, un asino frustato, una pecora nuda): alcuni elementi di questo bestiario (come “il primo agnello nato [che] fu chiamato diluvio” di sangre, o l’”agnello mangiato” di hajar, o ancora il “gregge scacciato” dello stesso brano) si possono infatti ricondurre a un immaginario evangelico.

3. Analizzando più in dettaglio il lavoro di Incani, oltre alla mescolanza di quattro idiomi diversi (ai quali si aggiunge, ma solo per la struttura sintattica, l’italiano) si nota il ritorno insistito di alcune parole da un brano all’altro del disco, senza per altro che venga quasi mai modificata la lingua scelta per esprimere lo stesso concetto[7].

Prima di addentrarci meglio in questo reticolo lessicale, si può sottolineare che qualcosa del genere accadeva pure nel precedente lavoro discografico di IOSONOUNCANE, l’acclamato DIE (Trovarobato, 2015). Anche quest’ultimo, cantato unicamente in italiano, aveva una struttura da concept-album, e presentava per di più un tema molto simile a quello di IRA, dato che i testi ruotavano intorno ai destini di un uomo in mare e di una donna che lo sta aspettando a terra[8]. E la narrazione del disco –che, come nel caso di IRA, è priva di referenti precisi e rimane su un piano simbolico– procede attraverso la ripetizione di alcuni lessemi-guida collocati quasi sempre in posizione finale di verso («sole», «fame», «sale», «falce», «sete», «seme», «rive», «mare», «vele», «muore») e a volte giustapposti a creare effetti paronomastici (come con «sale», «sole», «sete» e «seme»)[9].

Nel caso di IRA i sostantivi maggiormente ricorrenti sono, in ordine decrescente di frequenza, «mother» (ing; “madre”), «bouche» (fr; “bocca”), «sangre» (sp; “sangue”), «bone(s)» (fr; “osso/a”), «prison» (ing.; “prigione”)[10], «voix» (fr; “voce/i”), «nuit» (fr; “notte”), «son» (ing; “figlio”), «chant» (fr; “canto”), «ojos» (sp; “occhi”), «fleuve» (fr; “fiume”), «saison» (fr; “stagione”), «name» (ing; “nome”), «égout» (fr; “fogna”), «fils» (fr; “figlio”), «foule» (fr; “folla”), «jabal» (ar; “montagna”), «kalb» (ar; “cane”), «hiver» (fr; “inverno”), «piel» (sp; “pelle”)[11]. Accanto a questi sostantivi –otto dei quali sono impiegati anche come titoli di brani[12]– si possono segnalare anche alcuni aggettivi presenti più volte lungo il disco: «loin» (fr; “lontano”), «mon» (fr; “mio”), «long» (ing; “lungo”), «last» (ing; “ultimo”), «cold» (ing; “freddo”), «marid» (ar; “malato”). Significativa anche la ricorrenza del participio passato «chassé» (fr; “cacciato”), che in foule è ripetuto per tre volte di seguito in fine di verso («El piel dol chassé / Le bones dol chassé / Le voix dol chassé»[13]).
Per quanto riguarda invece le combinazioni di due o più parole che si ritrovano in brani diversi, segnaliamo «loin mother» (fr + ing; “madre lontana”) in ashes e nuit, «Ayna you?» (ar + ing; “dove (sei) tu?”) in hiver e prière, «loin ciudad» (fr + sp: “città lontana”) in niran e fleuve, «dans el sangre» (fr + sp: “nel sangue”) in nuit e sangre.

L’analisi lessicale mette dunque in evidenza quello che è il tema dominante del disco: il viaggio doloroso di un figlio, una città lontana e l’attesa di una madre sofferente.

4. Messa in luce la particolare strategia con la quale Incani ha realizzato i testi di IRA, ci si può chiedere se essa abbia avuto dei precedenti: esistono album o canzoni costruite nello stesso modo?
Ora, escludendo il caso di musicisti creatori di linguaggi (come i francesi Magma inventori della lingua kobaiana), così come quello dei rapper figli di immigrati che inseriscono nei loro testi stralci della lingua madre dei genitori (un esempio interessante, per quanto riguarda la scena italiana, è Jennifer di Ghali, scritta in collaborazione con l’algerino Soolking), un antecedente dell’operazione di IOSONOUNCANE potrebbe ravvisarsi nel brano Fou de love di Angelo Branduardi, contenuto nell’album Domenica e lunedì del 1994. L’autore del testo, Pasquale Panella (la cui attività di paroliere è legata in particolare agli ultimi cinque album di Lucio Battisti), ha infatti ripreso il tema classico del dolore amoroso impiegando idiomi diversi (spagnolo, inglese, francese, provenzale, tedesco, napoletano, italiano e italiano antico), talvolta mescolati tra di loro anche all’interno di uno stesso verso[14]. In questo caso è tuttavia evidente una componente giocosa che è invece del tutto assente nei testi di IRA: se l’ibridismo linguistico di Panella è figlio di un’ispirazione dadaista, quello di Incani possiede un respiro epico, funzionale a rappresentare il viaggio affannoso di un singolo che simboleggia l’umanità tutta.

NOTE

NOTE
1 Nella seconda traccia, ashes, è presente anche un termine tedesco come «reich», che è tuttavia parola diffusa anche in inglese.
2 E la voce in questione non è solo quella di Incani, dato che a cantare sono anche gli altri 6 musicisti che suonano nell’album (Mariagiulia Degli Amori, Francesco Bolognini, Simona Norato, Amedeo Perri, Serena Locci, Simone Cavina).
3 Naturalmente questa mescolanza, che coinvolge sia le parole piene (sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi) sia quelle vuote (preposizioni, articoli, congiunzioni, pronomi), non esclude alcune sequenze monolinguistiche, a volte tali da riguardare un intero verso. Ciò accade, soprattutto, nella combinazione di due parole (spesso aggettivo o pronome + sostantivo): per es. «Mes loin fils» (fr; “i miei figli lontani”), «Open sea» (ing; “mare aperto”), «Hungry sea» (ing; “mare affamato”), «dead June» (ing; “giugno morto”), «glacial fog» (ing; “nebbia ghiacciata”), «Hungry father» (ing; “padre affamato”), «buried son» (ing; “figlio seppellito”), «sale fleuve» (fr; “fiume sporco”), « eau fouetté» (fr; “acqua montata”), «This son» (ing; “questo figlio”), «every son» (ing; “ogni figlio”). Più raramente, ciò riguarda sequenze di più parole: «Ici nous tombons» (fr; “qui noi cadiamo”), «May god bless you» (ing; “Che dio ti benedica») o «Dans la nuit de pétrole» (fr; “nella notte di petrolio”).
4 Come ha scritto bene Hugo Romero, IRA rientra tra quei «dischi concettuali meno per volontà narrativa che per vocazione tematica e sonora».
5 Incani ha ammesso che tra gli ascolti a cui si è dedicato durante la composizione di IRA c’è stata molta musica del Maghreb, soprattutto marocchina. Così come ha rivelato che il dundun, un tamburo tipico dell’Africa occidentale, è una delle percussioni impiegate nel disco (suonata da Mariagiulia Degli Amori).
6 Per la traduzione dei testi ci si è basati su quella presente nel sito genius, rivista e completata da chi scrive.
7 Per esempio, “città” è sempre «ciudad» (sp), “fiume” «fleuve» (fr), “madre” «mother» (ing), “montagna” «jabal» (ar) e così via. Tra i pochi casi in cui uno stesso significato è espresso in lingue diverse vi sono «sea» (ing) e «mar» (sp) per “mare”, «son» (ing) e «fils» (fr) per “figlio”, «rajul» (ar) e «man» (ing) per “uomo”.
8 Alcuni versi di DIE («è questo il figlio e andrà per mare / è questo l’uomo che cadrà» da Tanca; «uomo che cade in mare» da Paesaggio) potrebbero figurare anche in IRA. In entrambi i dischi, inoltre, i titoli di tutti i brani sono formati da un’unica parola.
9 A tale proposito si veda questa dichiarazione dell’autore: «Attraverso le ripetizioni cambio continuamente il significante di alcune parole, e attraverso la ripetizione costruisco il racconto con la costruzione delle singole immagini. La ripetizione, infine, mi permette di rendere il senso del continuo rigenerarsi all’interno della ciclicità».
10 Per classificare come inglesi o francesi termini che, come prison, horizon, glacial, desert o long, risultano omografi nelle due lingue ci si è basati sul modo in cui sono pronunciati.
11 Non si sono segnalati quei termini la cui ripetizione è quasi esclusivamente concentrata in un unico brano, come «horizon» (fr; “orizzonte”) e «reich fishes» (ing; “pesci del regime”) reiterati in ashes; «jour» (fr; “giorno”), presente soprattutto in nuit; «alpes»(fr; “alpi”) e «sea» (ing; “mare”), ripetuti in niran. Lo stesso dicasi per l’aggettivo «sale» (fr; “sporco”), ricorrente in piel, e per il participio passato «gone» (ing; “andato”), che ritorna più volte in soldiers.
12 E a tale riguardo si può osservare che ogni titolo dei 17 brani di IRA si ritrova anche all’interno di almeno un altro brano.
13 “La pelle del cacciato / le ossa del cacciato / la voce del cacciato”.
14 Si vedano, per esempio, i versi «mit you por siempre» (“con te per sempre”) e «now che sarà de mi» (“ora che sarà di me”).

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