L’immaginazione è sovversiva,
perché mette il possibile contro il reale
(Jan Švankmajer)
1. Scaturita dalla vivace scena artistica della Cecoslovacchia degli anni ’50 e ’60[1], e profondamente influenzata dalla tradizione culturale boema (si pensi al teatro di marionetta[2] o a una figura come il pittore Giuseppe Arcimboldo, che fu al servizio della corte praghese di Massimiliano II e poi di Rodolfo II d’Asburgo[3]), l’opera di Jan Švankmajer (nato a Praga nel 1934) rappresenta probabilmente una delle esperienze più originali nella storia della cinematografia europea.
In più di cinquant’anni di sperimentazioni visive, tra i cortometraggi dei primi decenni e i lungometraggi realizzati a partire dagli anni ’90, Švankmajer ha perseguito un’idea personale di cinema, la cui caratteristica peculiare è certamente l’unione di riprese dal vivo e animazione, tecnica, quest’ultima, in cui è riconosciuto come uno maestro. E il tutto rimanendo sempre profondamente legato ai principi del gruppo surrealista (di cui è membro dal 1970), alla sua «visione fantasiosa e magica della vita e del mondo» e alla possibilità che esso offre di contrapporsi alla «noia onnicomprensiva del pragmatismo consumistico»[4].
In grado di districarsi tra le maglie della censura del regime comunista –che gli ha tuttavia impedito di fare film tra il 1973 e il 1980[5] –, Švankmajer ha usato il cinema (ma anche la pittura, la ceramica, il collage e la poesia) per dare vita alle sue ossessioni, il che si è tradotto nella presenza ricorrente di una serie di temi che ritroviamo da un’opera all’altra[6]:
-l’ampio spazio dedicato al mondo dell’immaginazione, dell’onirico e dello stupore di matrice surrealista: in sostanza, dell’«irrazionale usato come forma di ribellione contro ogni forma di utilitarismo»[7] e come liberazione dalla repressione della società moderna[8]
-l’interesse per la magia e l’alchimia
-la passione per tutto ciò che è vecchio, curioso, bizzarro[9]
-il black humor e l’attrazione per il grottesco, il macabro e per le atmosfere gotiche: di qui la ricorrente presenza della morte e della letteratura di Edgar Allan Poe
-la fascinazione per l’infanzia, intesa non in senso sentimentale ma come profonda esperienza conoscitiva (sulla scia di Lewis Caroll)[10]
-l’amore per il gioco, la manipolazione, il nonsense, nonché per la tassonomia, le associazioni fantasiose di oggetti, il collage e l’arte combinatoria[11]
-l’insistenza sulla serialità, le strutture circolari, la ripetizione e le variazioni (il che rimanda alla fascinazione surrealista per le categorizzazioni tipiche della scienza, ma anche alla dimensione caratteristica dei giochi dell’infanzia[12])
-la centralità dell’oggetto e degli esperimenti con materiali tattili (come la creta[13]: gli oggetti sono visti come qualcosa di vivo, in grado di evocare sentimenti, impulsi inconsci e associazioni con altri oggetti, a contrastare il loro puro valore utilitaristico[14]; si tratta per Švankmajer di elementi «più vivi degli uomini, più duraturi ed anche più espressivi, più emozionanti con i loro segreti, con la memoria interna che va molto al di là dei ricordi dell’uomo»[15]
-il tema dell’oggetto «dalla vita autonoma, o ribelle all’uomo, o impazzito», funzionale a «dissacrare la sorpassata visione dell’uomo che considera se stesso dominatore e padrone incontrastato degli oggetti da lui creati»[16]
-l’importanza conferita al cibo, simbolo della civiltà dei consumi[17]
-l’idea della mancanza di comunicazione e della costante sopraffazione e competizione che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani
-la riflessione sulle dinamiche del desiderio, del sadismo, del masochismo, della manipolazione e della tendenza dell’uomo all’auto-schiavizzazione
-il «topos del luogo chiuso e del labirinto»[18], e della figura umana «vista come oggetto o schiavo»[19], ovvero sempre a rischio di manipolazione
2. Attraversare la produzione di Jan Švankmajer significa allora immergersi nelle sue ossessioni, lasciandosi sorprendere tanto dalla maestria tecnica quanto dalla fantasia liberatoria e dalla pungente inquietudine che promanano dalle sue opere: è infatti davvero difficile rimanere indifferenti di fronte alla carica irriverente dei film del regista ceco, il cui lavoro può essere letto anche come una costante esplorazione del disagio della civiltà, ovvero una riflessione sulla società umana, le sue nevrosi e le sue perversioni.
All’interno di un’opera così interconnessa, piena di fili rossi che si rincorrono e in cui ogni episodio meriterebbe di essere valorizzato, prendiamo le mosse da quello che fu il primo lungometraggio realizzato da Švankmajer: Nĕco z Alenky (Qualcosa da Alice) del 1987. Dopo la censura subita nella seconda metà degli anni ’70, a Švankmajer fu concesso di tornare a lavorare a patto di usare come modelli testi letterari classici[20] ; e dopo un paio di corti tratti dai racconti di Edgar Allan Poe –Zánik domu Usheru (La caduta della casa Usher, 1980) e Kyvadlo, jáma a naděje (Il pozzo, il pendolo e la speranza, 1983)[21]–, il regista decise di mettere in scena Alice nel Paese delle meraviglie di Lewis Caroll, autore molto amato dai surrealisti e che era già stato la fonte di ispirazione per il cortometraggio Zvahlav aneb šatičky Slaměného Huberta (Jabberwocky o il vestitino di Hubert Paglia) del 1970[22].

Come dichiarato dal titolo, l’Alice di Švankmajer non è una fedele riproduzione del capolavoro di Caroll bensì una sua libera interpretazione nella quale lo spirito del romanzo si sposa con le ossessioni e gli stilemi del regista ceco:
“Alice” di Lewis Carrol appartiene alla mia mitologia. Giravo intorno a questo romanzo da molto tempo. Ne sono la prova i miei film precedenti “Jabberwocky”e “In cantina”. Solo più tardi ho avuto il coraggio di misurarmi con la vera “Alice”. Non avevo l’intenzione di realizzare una interpretazione diretta e neppure una illustrazione di questo libro quanto piuttosto un adattamento che riflettesse le esperienze della mia infanzia.[23]
Tra le molteplici trovate che si susseguono in questa sorprendente versione dell’opera di Caroll –dalla stanza della protagonista concepita come una vera e propria wunderkammer (piena di bambole, collezioni di farfalle e insetti, marionette, animali imbalsamati, trappole per topi, giocattoli, carte da gioco, ecc.)[24], all’impiego di una bambola per il ruolo di Alice rimpicciolita; dalla rappresentazione del Bianconiglio come un coniglio impagliato pieno di segatura, alla raffigurazione dei suoi aiutanti come animali inquietanti (con teschi con cappelli rossi al posto della testa) e di costituzione ibrida (come un uccello senza testa che ha per corpo un letto con sbarre)– tra tutto ciò un elemento ricorrente è costituto dallo scrittoio con cassetto.
Se già all’inizio vediamo il Bianconiglio estrarre dalla sua teca un cassetto nascosto contenente i suoi abiti di scena, è però il cassetto pieno di squadre di legno e altri oggetti di cancelleria di uno scrittoio posto all’esterno che dà il la alla vicenda. Sia il Bianconiglio sia, imitandolo, Alice utilizzano infatti questo cassetto come prima soglia per entrare nel mondo delle meraviglie da cui saranno risucchiati.

Troviamo poi uno scrittoio più piccolo nella tana del Bianconiglio, il quale estrae dal cassetto una spilla da balia che utilizza per contenere la fuoriuscita di segatura dal suo corpo. Anche in questo caso, come in quello precedente, Alice fa una gran fatica ad aprire il cassetto e, al suo primo tentativo, il pomello le rimane in mano. E la stessa scena si ripeterà di nuovo quando Alice, dopo essere scesa per diversi piani attraverso una specie di ascensore, si troverà di fronte un altro scrittoio: questa volta, dopo essere finalmente riuscita ad aprire il cassetto, vi troverà prima una piccola chiave (che le permetterà di aprire una porticina e di adocchiare nuovamente il Bianconiglio), poi un barattolino di inchiostro (bevendo il quale si trasformerà da bambina in carne ed ossa a piccola bambola) e infine un biscotto (mangiando il quale riassumerà sembianze umane ma con proporzioni accresciute).
E altri ancora saranno gli scrittoi incontrati da Alice: per esempio lo scrittoio galleggiante (in mezzo alle sue lacrime che hanno allagato la stanza) che userà come zattera di salvataggio e dal cui cassetto estrarrà un’altra chiave (che le consentirà di aprire un’altra porta, che dà sull’esterno).
E poi di nuovo uno scrittoio dal cui cassetto, apertosi automaticamente, fuoriesce una scala che permetterà ad Alice-bambola di raggiungere la sommità del tavolino. E di qui proseguirà incontrando un altro scrittoio il cui cassetto contiene delle forbici e un’altra fialetta di inchiostro (che Alice beve riacquistando così sembianze umane).
E ancora lo scrittoio collocato nella stanza dal cui pavimento, pieno di buchi, spuntano lunghe calze simili a vermoni: questa volta nel cassetto si trovano una dentiera e due occhi che una delle calze-verme ingloba su di sé assumendo l’identità del Brucaliffo. E poi da quello stesso cassetto uscirà fuori il Bianconiglio per prendere le forbici a lungo cercate.
3. Il lavoro di Švankmajer sul testo di Carroll è, come detto, il compimento di una vicinanza di lunga durata al mondo di Alice. Si pensi, per esempio, a un’opera come Do pivnice (In cantina, 1982), in cui la discesa di una bambina in cantina (che «ricorda l’inizio del racconto di Carroll con la discesa di Alice dal mondo reale a quello delle meraviglie»[25]) si trasforma, grazie al filtro dell’immaginazione fanciullesca, in un’allucinazione spaventosa. Tra l’altro, la scena in cui la bambina cerca di prendere invano delle patate da una cassapanca (non appena messi in borsa, i tuberi si muovono dispettosamente ritornando al loro posto) sembra debitrice di un passaggio di Attraverso lo specchio (cap. v) di Carroll:
Alice, come a volte succede, non fece caso a queste parole e si mise a girare per il negozio, avvicinandosi ai cassetti e guardando dentro.
La bottega sembrava piena di ogni genere di cose curiose…ma la cosa più curiosa era che, non appena lei si avvicinava a un cassetto per rendersi ben conto di ciò che vi fosse dentro, proprio quel cassetto risultava completamente vuoto: e intanto gli altri intorno apparivano pieni zeppi, al punto che la roba quasi non ci stava dentro.
«Ma qui le cose si muovono!» disse infine Alice con voce accorata, dopo aver tentato invano, per un minuto, di inseguire una grossa cosa luccicante che sembrava a volte una bambola e a volte una cassettina da lavoro e che era sempre nello scaffale al di sopra di quello in cui lei stava guardando. «E questo è il più indisponente di tutti…ma vedrai che…» aggiunse mentre le veniva un’idea «ti seguirò fino allo scaffale che sta in cima a tutti. Voglio proprio vedere se sei capace di metterti a camminare lungo il soffitto!»
Ma anche questo piano fallì: la «cosa» si mise a camminare lungo il soffitto con aria tranquilla, come se fosse sua abitudine farlo.[26]

E un’altra incarnazione di Alice si ritrova in Otesánek (Little Otik, 2000), tratto dall’omonima fiaba dello scrittore ceco Karel Jaromír Erben; la bambina bionda che abita nello stesso condominio della coppia protagonista del film è l’unico personaggio che intuisce la stranezza della gravidanza della vicina di casa e che, successivamente, è in grado di sviluppare una relazione empatica con Otik (il figlio mostruoso della coppia), dopo che quest’ultimo è stato segregato in cantina.

O si pensi ancora come nel bellissimo Tma-světlo-tma (Oscurità-luce-oscurità, 1989) l’uomo di argilla che, alla fine del suo assemblaggio, si ritrova imprigionato dentro casa ricordi Alice che, cresciuta a dismisura dopo aver bevuto da una bottiglietta, rimane anch’essa imprigionata dentro casa.


Tuttavia, come è stato sottolineato, invece di abbattere con un calcio la casa natia come l’eroina di Carroll, il protagonista di questo corto –a conclusione di una creazione che per lui è anche un’autotortura– decide di spegnere la lampada[27].
4. Cassetti, porte, chiavi: Švankmajer impiega questi elementi per evidenziare i continui passaggi attraversati da Alice nel suo inquietante viaggio. E lo stesso accade in altri suoi film in cui elementi come finestre o armadi «assumono la funzione di soglia che consente ai personaggi –siano essi in carne ed ossa o in argilla– di trapassare dal mondo dell’inanimato a quello dell’animato, dall’universo razionale a quello irrazionale, portando alla luce i loro desideri più osceni, repressi e reconditi»[28].
Davvero molteplici sono le “aperture” che attraversano l’opera di Švankmajer e che sono presenti sin dalle sue prime prove: come le teste di legno apribili –da cui vengono estratti violini ed altri oggetti– dei due pezzi degli scacchi che si affrontano a colpi di prestigio nel primo corto del regista ceco (Poslední trik pana Schwarzewaldea a pana Edgara/L’ultimo numero del signor Schwarzewald e del signor Edgar, 1964); o come la successione di porte e portoni che si spalancano nella parte centrale di J. S. Bach: Fantasia g-moll (J. S. Bach: fantasia in sol minore, 1965).
O, ancora, la porta-finestra che, una volta abbattuta, rivela solo un muro pieno di scritte e graffiti nel bellissimo Byt (L’alloggio, 1968), film che inizia con l’apertura di una porta in seguito alla quale il protagonista viene gettato nell’appartamento inospitale dentro al quale è ambientato il corto. In maniera speculare il già citato Do pivnice (In cantina, 1982) inizia con l’uscita della bambina protagonista dalla porta del suo appartamento: un’uscita che coincide con l’ingresso in una realtà “altra” fatta di incontri inquietanti e situazioni stregate.
Il tema dell’abitazione, così caro a Švankmajer[29], torna in altre opere, come per esempio in Tichy tyden v domĕ (Una tranquilla settimana in casa, 1969), in cui il protagonista realizza buchi sulle porte che si affacciano su un corridoio attraverso i quali vede vari oggetti che si animano: tra cui un tavolo dal cui cassetto escono uccelli e una credenza al cui interno sono contenuti quelli che sembrerebbero dei piccoli zamponi. E armadi e cassetti “magici” compaiono anche in Picknick mit Weismann (Picnic con Weismann, 1969) e nel già citato Zvahlav aneb šatičky Slaměného Huberta (Jabberwocky o il vestitino di Hubert Paglia, 1970).
Neppure l’ingresso nel suo appartamento da parte del protagonista di Lekce Faust (Lezione Faust, 1994), il secondo lungometraggio di Švankmajer, è privo di sorprese: non appena aperta la porta, ne esce infatti una gallina nera, che ha riempito la casa di escrementi e ha incredibilmente lasciato un uovo dentro ad una pagnotta. I segni infausti continuano quando, rotto l’uovo, che si rivelerà essere vuoto, si scatena un temporale che fa calare improvvisamente le tenebre, dentro e fuori dell’appartamento. Ma ancora più inquietante si dimostrerà l’ingresso, il giorno dopo, dentro il portone di un palazzo al quale il protagonista è arrivato seguendo una mappa misteriosa.

Attraversata la porta che dà su un cortile, superata un’altra porta che lo conduce in una specie di scantinato, e aperta una porta ulteriore, egli si ritrova in quello che sembra essere il camerino di un teatro, dove, seduto davanti a uno specchio, assumerà le sembianze di Faust. Di lì a ritrovarsi suo malgrado sul palcoscenico il passo è breve: preso dal panico, col pubblico già presente in sala, riuscirà a fuggire solo squarciando con un coltello la quinta teatrale, oltrepassata la quale viene a trovarsi in un laboratorio d’alchimista[30].
Anche Spiklenci slasti (I cospiratori del piacere, 1996), il film più buñueliano di Švankmajer, si apre con un ingresso (in un’edicola) da parte di un personaggio che poi vedremo entrare voluttuosamente dentro al suo armadio (che scopriremo contenere un manichino-simulacro a lui molto caro…) [31].
E qualcosa di analogo avviene nella fiaba horror Otesánek (Little Otik, 2000), dove nell’armadio della casa di campagna della coppia protagonista viene nascosto il bambino di legno –destinato a prendere vita– che il marito ha regalato alla moglie per consolarla della sua sterilità.
Con una porta aperta forzatamente incomincia Šílení (Lunacy, 2005), considerato da Švankmajer il più surrealista dei suoi film[32]: siamo dentro a un incubo, anche se la realtà che il film racconta si mostrerà non meno spaventosa…Lo stesso incubo ritorna altre due volte, a metà e alla fine del film: e in questi casi la coppia di loschi figuri (due infermieri minacciosi con in mano una camicia di forza, «pallidi e grassi» come i due boia di Josef K. nel Processo di Kafka) invece di entrare dalla porta sbuca fuori da un armadio o penetra dalla finestra. Tra l’altro nella seconda parte del film, ambientato in un manicomio sui generis, ritornano sia uno scantinato impiegato a mo’ di cella (come in Otesánek), sia un cassetto segreto contenente una chiave che permette di accedere al sottosuolo.
5. In conclusione, il cassetto di Jan Švankmajer è davvero ricco di attrezzi, è un cilindro pieno di sorprese che ci permette di entrare in un universo tanto affascinante quanto respingente. Attraversare le porte che il cineasta ceco ci spalanca è un’esperienza da non mancare, a patto di essere disposti a fare i conti con il mondo della vita interiore e con la materia informe e corrosiva che ribolle nel profondo dei nostri inconsci.
Se è vero che «siamo tutti obbligati a crescere, vale a dire a comportarci come tutti gli altri: dormire, mangiare, bere e divertirsi»[33], dobbiamo allora essere grati ad artisti come Švankmajer che, con la tenacia con cui hanno portato avanti il loro percorso, ci incoraggiano a ribellarci all’adultità preconfezionata e alla realtà, e ci invitano a non smettere mai di giocare e a dare voce al sogno e al desiderio, qualunque esso sia.
Dedicato a Cecilia C., che mi aveva parlato di Švankmajer molti anni fa (But I, being young and foolish, / with her would not agree)
NOTE
↑1 | Sulla scena cinematografica ceca dagli anni ’20 agli anni ’60 si veda Peter Hames, The Film Experiment, in The Cinema of Jan Švankmajer: Dark Alchemy, edited by Peter Hames, London-New York, Wallflower Press, 20082, pp. 8-39. |
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↑2 | Cfr. Timothy R. White, J. Emmett Winn, Il domani potrebbe salvarti: Jan Švankmajer e le storie di Edgar Allan Poe, in Jan Švankmajer (Moviement n°6), Lanzo, Manduria, 2010, pp. 34-45, a p. 39: «Le rappresentazioni delle marionette in terra cecoslovacca […] risalgono al XVII secolo e tradizionalmente si occupavano di questioni politiche ed erano spesso critiche nei confronti del governo. La gente di quella che un tempo era la Cecoslovacchia ha vissuto ed interagito con queste rappresentazioni artistiche pubbliche per secoli e molte delle loro fiabe e dei loro racconti popolari si muovono attorno a questa tradizione popolare». Cfr. anche Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 1973, p. 177: «Le lettere e la cultura praghesi abbondano di manichini, di gójlemess, di marionette, di statue di cera, di figurine da panoptikum, di pupazzi imbottiti, di automi». |
↑3 | Sia Arcimboldo che Rodolfo II sono esplicitamente omaggiati da Švankmajer nel corto Historia naturae (Suita) del 1967, dedicato proprio all’imperatore. Il pittore è chiaramente citato anche in Spiel mit Steinen (Pièce con pietre, 1965), nella prima parte di Moznosti dialogu (Possibilità di dialogo, 1982) e nel brevissimo Flora (1989). Cfr. Michael O’Pray, Jan Švankmajer e l’effetto Arcimboldo, in Jan Švankmajer (Moviement n°6) cit., pp. 46-57. |
↑4 | Jan Švankmajer, Alchimie surrealiste, in Jan Švankmajer, a cura di Bruno Fornara, Francesco Pitassio e Angelo Signorelli, Bergamo, Stefanoni, 1997, pp. 57-72, a p. 61. Švankmajer rifiuta una versione puramente estetica del surrealismo, che per lui rappresenta invece una visione del mondo la cui essenza filosofica consiste nell’ambizione di voler cambiare il mondo. |
↑5 | A causa dell’inserimento nel corto Leonarduv deník (Il diario di Leonardo, 1972) di immagini tratte da cinegiornali che mostravano manifestazioni di piazza: cfr. Alena Nádvorníková, Oggetti dal sottosuolo, in Jan Švankmajer cit., pp. 5-43, a p. 26. L’unica opera esplicitamente politica del regista praghese sarà il corto The Death of Stalinism in Bohemia (La morte dello Stalinismo in Boemia) realizzato nel 1990 su commissione della BBC. |
↑6 | Cfr. questa dichiarazione: «In my work I never went from somewhere to somewhere else. My themes are constant, and by repeating them I keep liberating myself from my demons» (da un’intervista rilasciata a Michael Brooke del 2007). |
↑7 | Dario Antimi, L’impronta surrealista nell’opera di Švankmajer: i cortometraggi, Roma, EUS, 2015, p. 20. |
↑8 | Espressamente dedicato al mondo dei sogni è il penultimo lungometraggio di Švankmajer, Prezit Svuj Zivot (Surviving Life, 2010), da lui stesso definito una “commedia psicanalitica”. Interessante anche questa dichiarazione del regista nell’introduzione al film: «Ho sempre avuto voglia di girare un film in cui il sogno si mescolasse alla realtà, e viceversa. Perché come sappiamo con Georg Christoph Lichtenberg è solo l’unione di sogno e realtà a creare la pienezza della vita umana. Purtroppo questa nostra civiltà non fa più affidamento sui sogni, perché loro non possono essere capitalizzati». |
↑9 | Forse eco di quella «catasta di arsiccio e maculato vecchiume, di scarabàttole intrise di rassegnata tristezza, […] di utensíli sbreccati, di decrepiti oggetti malati, di nínnoli marci» in cui Angelo Maria Ripellino (Praga magica cit., pp. 34-24) vedeva una delle caratteristiche di Praga. |
↑10 | Si veda quanto dichiara Švankmajer nel secondo punto del suo Decalogo (risalente al 2006): «Dalle profondità della tua infanzia provengono i più grandi tesori. Il cancello deve sempre rimanere aperto in quella direzione» (Jan Švankmajer (Moviement n°6) cit., p. 104). |
↑11 | Cfr. J. Švankmajer, Alchimie surrealiste cit., pp. 57-72, a p. 64: «La maggior parte dei miei film è nata come conseguenza psicologica della mia passione di collezionista». |
↑12 | Su questo punto cfr. Michael O’Pray, Jan Švankmajer: A Mannerist Surrealist, in The Cinema of Jan Švankmajer cit., pp. 40-66, a p. 45. |
↑13 | L’uso dell’argilla è centrale nei due capolavori Moznosti dialogu (Possibilità di dialogo, 1982) e Tma-světlo-tma (Oscurità-luce-oscurità, 1989). E la ritroviamo anche nel video musicale realizzato per il pezzo Another kind of Love di Hugh Cornwell (1988) e nei lungometraggi Lekce Faust (Lezione Faust, 1994) e Spiklenci slasti (I cospiratori del piacere, 1996). |
↑14 | Su questi aspetti cfr. Peter Hames, The Core of Reality: Puppets in the Feature Films of Jan Švankmajer, in The Cinema of Jan Švankmajer cit., pp. 83-103, a pp. 99-100. E si veda anche questa affermazione di Švankmajer: «Objects conceal within themselves the events they have witnessed…I have always tried in my films to ‘excavate’ this content from objects, to listen to them and then illustrate their story…This creates a meaningful relationship between man and things, founded on a dialogue, not on consumer principles» (František Dryje, The Force of Imagination, in The Cinema of Jan Švankmajer cit., pp. 143-186, a p. 152 [originariamente in Ludvík Šváb, Švankmajer on the Fall of the House of Usher, «Afterimage» 13, pp. 33-37]). |
↑15 | Eusebio Ciccotti, Avanguardia e cinema in Cecoslovacchia, Roma, Bulzoni editore, 1989, p. 243. |
↑16 | Ivi, p. 115. |
↑17 | A questo tema è espressamente dedicato il magnifico corto Jídlo (Cibo) del 1992 |
↑18 | E. Ciccotti, Avanguardia e cinema cit., p. 258. |
↑19 | D. Antimi, L’impronta surrealista cit., p. 101. |
↑20 | Cfr. Jan Švankmajer, La magia degli oggetti, in Jan Švankmajer cit., pp. 85-87, a p. 86. |
↑21 | Oltre che sul celebre racconto di Poe Il pozzo e il pendolo (1842), questo corto è basato, per la parte finale, sul racconto La torture par l’espérance (1888) di Villiers de l’Isle-Adam. Cfr. Timothy R. White, J. Emmett Winn, Il domani potrebbe salvarti cit. Švankmajer tornerà a trarre ispirazione dallo scrittore americano per il suo lungometraggio Šílení (Lunacy) del 2005 (basato sui racconti Il seppellimento troppo affrettato e Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma). |
↑22 | Questo corto si apre con la recitazione della poesia metasemantica Jabberwocky che si trova all’inizio del romanzo di Caroll Attraverso lo specchio. Esso mescola inoltre anche un riferimento al libro dell’autore ceco Vítězslav Nezval Anička Skřítek a Slaměný Hubert del 1936 (a sua volta ispirato all’Alice di Caroll). |
↑23 | Dichiarazione di Jan Švankmajer da un’intervista uscita su «Positif» nel 1989: Jan Švankmajer cit., p. 114. |
↑24 | Cfr. Bruno Di Marino, Le metamorfosi “underground” di Alice (presentazione dell’edizione italiana del film in DVD edita da Raro Video). |
↑25 | D. Antimi, L’impronta surrealista cit., p. 65. |
↑26 | Traduzione di Tommaso Giglio |
↑27 | A. Nádvorníková, Oggetti dal sottosuolo cit., pp. 36-37. |
↑28 | Cfr. Bruno Di Marino, Le metamorfosi “underground” di Alice (presentazione dell’edizione italiana del film in DVD edita da Raro Video). |
↑29 | «Quello che ho detto a proposito dei contenuti latenti degli oggetti è ugualmente vero per gli ambienti e i luoghi. Certe case, ma anche certe strade, e così via, sono cariche di “storie” che io cerco di incorporare per analogia nei miei film» (da un’intervista uscita su «Positif» nel 1985: Jan Švankmajer cit., p. 96). |
↑30 | Nel suo Faust, che –pur ricollocando la vicenda nella Praga moderna– attinge alle più note fonti letterarie come il Doctor Faustus di Christopher Marlowe, il Faust di Goethe e il Don Juan und Faust di Christian Dietrich Grabbe, Švankmajer ha forse riversato anche alcune delle caratteristiche dell’imperatore Rodolfo II (che a Praga fu dedito all’alchimia e alla passione per l’occulto). D’altra parte la leggenda faustiana ha una lunga tradizione legata alla capitale boema: cfr. Pavel Drábek, Dan North, “What governs life”: Švankmajer’s Faust in Prague, in «Shakespeare Bulletin» 29/4 (2011), pp. 525-542. |
↑31 | I “piaceri” a cui sono dediti i sei protagonisti del film hanno tutti a che vedere con il tatto, un senso su cui Švankmajer ha molto lavorato e che ha cercato sempre di valorizzare. In particolare, le spazzole adoperate dal personaggio interpretato da Pavel Nový, attore feticcio di Švankmajer, provengono dagli “esperimenti tattili” che il regista ceco aveva condotto già a partire dagli anni ’70. |
↑32 | Peter Hames, Interview with Jan Švankmajer, in The Cinema of Jan Švankmajer cit., pp. 104-139, a p. 138. Il film, che Švankmajer, nell’introduzione, dice essere debitore, oltre che di Poe, anche di De Sade (di cui il personaggio del marchese è una specie di doppio), presenta anche un omaggio alla celebre Venere di Milo con cassetti di Salvador Dalì: in uno degli intervalli musicati interpolati al racconto vediamo infatti una riproduzione del busto della Venere di Milo dai cui occhi, bocca e capezzoli escono delle lingue. |
↑33 | J. Švankmajer, Alchimie surrealiste cit., p. 67. |
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